lunedì 20 luglio 2009

DARK WATERS

Titolo originale: id.
Nazione: USA
Anno: 2005
Genere: horror
Durata: 1h40m
Regia: Walter Seller
Sceneggiatura: Rafael Yglesias
Fotografia: Affonso Beato
Musiche: Angelo Badalamenti
Cast: Jennifer Connelly, Ariel Gade, Dougray Scott, Tim Roth, John C. Reilly, Pete Postlethwaite, Camryn Manheim, Debra Monk, Linda Emond, Perla Haney-Jardine, Bill Buell, Elina Lowensohn, Warren Belle, Alison Sealy-Smith


Trama
Dahlia Williams decide di trasferirsi assieme alla sua piccola Cecilia in uno squallido quartiere periferico di New York. Dhalia ha appena divorziato e il dolore è ancora forte anche perché è in causa con l’ex-marito per l’affidamento della figlia. La vita nel nuovo appartamento procede tranquillamente fino a quando una grossa chiazza d’acqua appare sul soffitto della sua camera da letto. Nel frattempo Cecilia afferma di parlare con un’amichetta immaginaria che, guarda caso, ha lo stesso nome di una bambina misteriosamente scomparsa dall’appartamento del piano di sopra.

Recensione
Già dal principio era difficile pensare che “Dark waters”, remake dell’omonimo film nipponico diretto da Hideo Nakata, regista anche del celebre“The ring”, potesse regalare qualcosa di buono. L’originale già non mostrava elementi interessanti, riducendosi ad un horror poco efficace e decisamente noioso. Strano poi che dietro alla mdp sia stato scelto il regista brasiliano Walter Seller, autore sì di pellicole di qualità (“Central do Brasil” e “I diari della motocicletta”), ma dal contenuto fortemente drammatico e del tutto lontane da tematiche thriller ed horror. Di conseguenza, questo “Dark waters” perde quasi ogni traccia degli aspetti orrorifici presenti nell’originale, per giunta già latitanti. Seller sposta, come si poteva prevedere, l’attenzione sul rapporto madre-figlia e sul dolore provato a causa di una triste separazione, spesso riversato nei figli obbligati ad accettare scelte dei genitori non ancora in grado di comprendere con giudizio. “Dark water” dunque non riesce a convincere lo spettatore della possibilità di presenze paranormali, che può giustificare la presenza della bambina morta come uno rifugio inventato da Cecilia per allontanarsi dalla realtà che, sua sfortuna, la vede protagonista dei conflitti tra i suoi genitori. Senza dubbio ottima la descrizione psicologica dei personaggi, dei dolori e di Dahlia e delle sue difficoltà di riprendere una vita spezzata. Seller in questo è stato sicuramente aiutato dall’ottimo cast che ha avuto la fortuna di dirigere. Jennifer Connelly è tanto bella quanto capace di trasmettere attraverso i suoi irresistibili occhi la sofferenza e la tristezza, come aveva già fatto nelle precedenti pellicole “Requiem for a dream” e “La casa di sabbia e di nebbia”. Buone anche le prove di Tim Roth, nel ruolo dell’avvocato che gioca un ruolo importante dell’analisi sui problemi della famiglia introdotta da Seller, Pete Postlethwaite, nei panni del vecchio e burbero custode del palazzo, John C. Reilly, immobiliarista avido e meschino, e Dougray Scott, marito combattivo forse per non perdere la figlia, forse per farla pagare alla ex-moglie. Ottima la parte relativa alle musiche di Angelo Badalamenti e le scenografie di Therese Deprez, nella sua cura dei minimi particolari di ogni singolo angolo dello squallido palazzo di periferia immerso nella piovosa e grigia New York, raffigurata con efficienza dall’attenta fotografia di Affonso Beato.
“Dark water” assume dunque le fattezze del film realizzato con maggior stile dell’originale ma che come un splendido palazzo costruito su fragili fondamenta, scricchiola di continuo, con il rischio di crollare in mille pezzi. Metafora a parte, questo “Dark water” annulla quel poco di horror presente nel film di Nakata, identificandosi più come dramma psicologico. Il film raggiunge la perfetta sufficienza, ma approcciandosi ad esso come un horror il suo voto è 50% (mediocre), considerandolo invece come film drammatico è di 70% (discreto).
E’ ora che Hollywood la smetta di guardare continuamente all’estero alla ricerca di successi da riproporre con ambientazioni americane. Sarebbe sufficiente importare con maggior frequenza pellicole di qualità di nazioni “remote” e proporle così come sono al pubblico americano.

Voto: 60%





FONTE

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